Garantito IGP: Bianchi italiani del 2020: un discorso di troppo?
Oramai le degustazioni in bianco di Winesurf sono praticamente terminate. I risultati abbiamo cominciato a pubblicarli da tempo e proseguiremo per tutto il mese di agosto e settembre.
Qui non voglio parlare di voti ma di alcuni temi (o problemi) venuti fuori in degustazioni in zone diverse e che quindi possiamo chiamare “di tendenza”. Sono tematiche generali che ci hanno colpito particolarmente e che ci sembrano troppo importanti per non cercare un confronto sia con i produttori sia con gli appassionati.
Troppo presto
Oramai i bianchi italiani, “dalle alpi alle piramidi” vengono messi in commercio troppo presto. Praticamente tutte le denominazioni che abbiamo degustato e che assaggiamo oramai da anni dovrebbero mettere in vendita adesso i vini del 2019. Questo perché la crescita qualitativa generalizzata porta con se una aumento di complessità e profondità dei vini che purtroppo l’ingresso in commercio dopo pochi mesi penalizza non poco. Capisco che il Bel Paese abbia bisogno di bianchi freschi “da spiaggia” ma tanti produttori, per correre dietro (come dargli torto in questi momenti…) al mercato sacrificano almeno un 40/50% delle possibilità che i loro vini vengano apprezzati per quelli che realmente sono e non quello che, adesso troviamo nel bicchiere.
Troppa solforosa?
Una parte di questa “non prontezza” va data forse all’utilizzo, spesso sbagliato, della solforosa all’imbottigliamento. Cerco di spiegarmi meglio: con l’arrivo sul mercato di tappi alternativi (diam, nomacorc, stelvin etc) e con la loro adozione quasi generalizzata sui bianchi giovani ci stiamo accorgendo che tanti produttori non riescono a dosare al meglio la solforosa se utilizzano questi tipi di chiusure.
I casi più eclatanti li abbiamo trovati sia sui tappi tecnici a base di sughero che sugli stelvin , dove oramai è chiaro che il dosaggio dovrebbe essere diverso (quasi sempre inferiore, ma abbiamo trovato anche casi opposti, con vini estremamente maturi al naso)e così ci siamo ritrovati a degustare vini praticamente muti e amarognoli, anche se imbottigliati da qualche mesi. Se vuoi fare un vino per un consumo immediato regolati con la solforosa di conseguenza, all’opposto se vuoi che il tuo vino si apra dopo 8-10 mesi cosa cappero lo mandi a fare alle guide di settore che dovranno, giocoforza o scartarlo o penalizzarlo?
Troppo freddi
Capisco che in tempi in cui è difficile bere un rosso giustamente fresco la nostra proposta possa risultare di difficile applicazione ma se vogliamo veramente apprezzare ANCHE un bianco d’annata (e non solo) non dobbiamo berlo sotto ai 12-13 gradi. Nelle nostre degustazioni abbiamo dovuto più volte attendere anche decine di minuti che i vini si riprendessero da un “quasi congelamento” e più volte ci siamo accorti quanto diventino più complessi e comprensibili (si capiscono meglio anche i difetti…) i vini bianchi se li degustiamo attorno ai 13° o anche più. Capisco che la piacevolezza di beva cambia, ma se uno vuole un ghiacciolo non c’è bisogno di prenderlo dentro al vetro.
Troppo pesanti
Un discorso per noi vecchio come il cucco ma che assume ancor maggior valore parlando di bianchi d’annata o comunque di vini da bersi nell’arco di uno-due anni. Si parla quindi di vini facili e quindi a cosa minchia (scusate il francesismo) possono servire delle bottiglia di 650/700 grammi e oltre?
Servono solo a inquinare di più a farvi spendere di più, a farvi passare per chi vuole vendere vetro e non vino. Purtroppo la cosa è sempre più diffusa, in barba a tante dichiarazioni “ecologiste e sostenibili” . Cari produttori che usate bottiglie inutilmente pesanti, vergognatevi, vergognatevi, vergognatevi.
Troppo simili
Lo sappiamo che scateneremo un vespaio ma forse il problema più trasversale rilevato (non da quest’anno) sui bianchi italiani giovani è la loro “somiglianza”, non all’interno della stessa denominazione purtroppo. Tanti bianchi, anche se indubbiamente piacevoli, si assomigliano troppo specie dal punto di vista aromatico e questo non depone a favore della loro territorialità o tipicità, se vogliamo utilizzare un termine quasi obsoleto. Addirittura si assomigliano vini da uve semiaromatiche diverse e questo, permetteteci di dirlo è veramente strano se non si parte dal presupposto che si vinifichi “a catena” con gli stessi lieviti e/o nutrimenti di lieviti.
In un paese che basa la sua diversità enologica su tanti vitigni diversi non è certamente un bel segnale ritrovarsi con vini che nascono da uve diverse a centinaia di chilometri di distanza ma si assomigliano quasi come “gocce d’acqua”.
Troppa carne al fuoco?
Forse ci siamo spinti troppo avanti e abbiamo messo sul tavolo troppi problemi? Noi pensiamo di no.
Carlo Macchi