InvecchiatIGP: quel ’78 che mette in riga chi non crede nella longevità dei vini bianchi italiani
Per quanto mi riguarda ho speso sempre molte parole per tentare di sfatare l’idea che i vini bianchi italiani non siano in grado di competere con i rossi per longevità. Non ci provate nemmeno a dire “ma mica tutti i vini bianchi!”, perché tutti i vini rossi sì? Scremate le numerose tipologie di vino che nascono già senza la pretesa di saper invecchiare, possiamo dire con certezza quasi matematica che nel variegato mondo dei bianchi italiani c’è molta roba seria con quelle caratteristiche di cui stiamo parlando, non esiste una sola regione italiana che non possa offrire dei bianchi longevi, credetemi, dal Timorasso piemontese al Fiano campano, dal trebbiano abruzzese al verdicchio Marchigiano, dalla ribolla friulana al vermentino ligure, potrei andare avanti a lungo.
Ma forse, quello che meno vi aspettereste, è trovare bianchi dalla longevità sorprendente in una regione rossista per eccellenza come la Toscana.
Ebbene, anche in questo caso sbagliereste, alla grande! Non c’è bisogno di finire su qualche famoso Chardonnay della terra di Dante e Leonardo, sarebbe troppo facile. Andiamo invece dall’unica Docg bianca toscana, la Vernaccia di San Gimignano, che la maggior parte dei comuni mortali beve appena uscita o poco dopo. E no, non ci siamo! Quei poveracci come me e gli altri IGP che ogni anno devono spupazzarsi le nuove annate di Vernaccia, trovando vini prevalentemente acidi e citrini, scomposti e sgomitanti, sanno bene che ci vogliono almeno un paio d’anni per cominciare a sentire cosa ha da raccontare questo vino. Minimo.
E se vi dicessi che, invece, si può andare indietro nel tempo in maniera inimmaginabile e scoprire che quel bianco in terra di rossi è uno che non sente le rughe nemmeno dopo 44 anni? Qualcuno potrebbe dire che giusto da Montenidoli può esserci un vino così. Sbagliato ancora una volta!
La Vernaccia del ’78 che mi ha fatto ricrescere i capelli è quella di Federico Montagnani, dell’omonima tenuta.
Ovviamente a quel tempo non era Federico a lavorare in vigna e cantina, ma il suo babbo Pietro, 32 anni non ancora compiuti e suo nonno Dino di 58.
Erano già 12 anni che imbottigliavano i loro vini, infatti la prima vendemmia finita nel vetro risale al 1966. Il vino veniva fatto da sempre, ma venduto ad altre cantine, prima degli anni ’60 erano davvero in pochi a imbottigliare. Come dice Federico “La mia famiglia aveva come numero di registro d’imbottigliamento della provincia di Siena il 13. Tanto per fare un paragone, a me nel 2017 hanno assegnato il numero 9861”.
E continua a spiegarmi: “La vendemmia della ’78 fu fatta nel mese di ottobre, le giornate erano fredde e spesso piovose, oggi si vendemmia la vernaccia nel mese di settembre, spesso in maglietta a mezze maniche. Le uve venivano portate in cantina, diraspate e messe in serbatoi di cemento e dopo circa 24 ore di macerazione, per gravità si separavano le bucce (più leggere in alto) e mosto (più pesante in basso), la cosiddetta alzata di cappello. Il mosto di sgrondo, ovvero il fiore, destinato a finire in bottiglia, veniva spostato in un serbatoio, mentre la restante parte era destinata alla vendita in damigiane a privati, molto richieste in quegli anni”.
Federico mi fa notare anche che le gradazioni erano ben diverse da quelle attuali, infatti questa ’78 riporta in etichetta 12 gradi, ma arrotondati per difetto, l’esatto contrario di ciò che accade ora per via delle annate sempre più calde.
Eppure questa gradazione così modesta non sembra avere minimamente condizionato l’evoluzione del vino, forse perché la vigna da cui veniva prodotta era recente, innestata in campo da babbo e nonno con quel clone di vernaccia che ancora oggi è utilizzato per la produzione dell’Assola, la riserva aziendale.
La bottiglia stappata da Federico in occasione di una visita proprio il giorno della degustazione delle nuove annate, a detta sua non era neanche la migliore, ne aveva aperta un’altra in precedenza ancora più viva ed espressiva. Tanto di cappello, visto che questa mi ha mandato in brodo di giuggiole, soprattutto lasciata respirare a lungo nel calice, rivelando note di miele di castagno, un’affumicatura invitante, frutta bianca e agrumata in confettura, erbe aromatiche. Temevo di trovarla più che ossidata, soprattutto al naso, invece non è andata così, l’ossidazione è apparsa solo all’inizio, poi con l’ossigenazione il vino si è rinvigorito, un po’ come avviene alle piante in vaso quando gli manca l’acqua. E che vigore! L’acidità era ancora lì a dire la sua, il sorso non era debole e spento, al contrario succoso e vitale, sapido, davvero bello e complesso.
Ora sapete cosa vi siete persi in tutti questi anni che avete voluto stappare sempre bianchi giovani. Donna e uomo avvisati…
Roberto Giuliani